Filiberto Menna


Se fosse ancora necessaria una verifica della presenza sempre più marcata di una componente critica nella ricerca artistica di questi ultimi anni, l'opera di Adriano Altamira assumerebbe, già solo per questo, una valenza esplicitamente dimostrativa.

Occorre ripeterlo? Gli artisti spostano la propria operazione del piano espressivo-rappresentativo al piano di una riflessione critica sull'arte che ne mette in evidenza la natura specificamente linguistica.

I segni dell'arte subiscono un processo di decostruzione e di smontaggio che allarga lo spazio linguistico tra significanti e significati, agisce in questo spazio divaricandolo e spostando l'attenzione sul polo dei significanti per verificarne struttura e funzionamento.

Fare l'arte vuol dire quindi fare simultaneamente un discorso sull'arte con l'assunzione di un atteggiamento propriamente metalinguistico:
l'artista si rivolge pertanto a strumenti metodologici di ordine specificamente critico, attingendoli alla linguistica, alla semiotica, alla iconologia, e così via.

Altamira ha portato alle estreme conseguenze questo tipo di procedimento analitico agendo sulla serie di segni dell'arte che appartengono alla sfera dell’iconismo.
L'operazione è di ordine strettamente linguistico, nel senso che l’artista identifica arte e storia dell'arte e trasferisce quest'ultima sul piano di una storia, o, meglio, di una sequenza diacronica di segni: l'arte è, in definitiva, un repertorio o serbatoio di immagini al quale l'artista può libera- mente attingere con una operazione di riciclaggio che sposta i segni e li colloca in una diversa struttura.

Per questa operazione, l’artista ha bella e pronta una disciplina storico-critica, l'iconologia, che lavora sulle immagini e sulle relazioni che queste intrattengono tra di loro lungo il corso del tempo.
Ma Altamira interviene sul metodo iconologico con un procedimento volutamente riduttivo, nel senso che egli propone una storia delle immagini non dal punto di vista dei significati, ma da quello dei significanti, di cui mette in evidenza la relativa invarianza.

In altri termini, egli è indifferente ai significati che l’iconologia intende invece accertare rinvenendoli sul piano storico-culturale o su quello profondo della psicologia collettiva a seconda delle sue diverse declinazioni e vocazioni. La messa in parentesi dei significati storici si realizza mediante un procedimento che si fonda sulla scelta, il prelievo e l'accostamento di una serie iconica all'interno di una nuova struttura che ne azzera la diacronia sul tempo presente, nella orizzontalità sincronica dell'opera.

Ne deriva una struttura fortemente sintattica in cui i singoli elementi si presentano come unità linguistiche il cui valore si dà per differenze e opposizioni all'interno del contesto sistematico.

L'ordine del discorso fondato sui significati storici e culturali viene completamente sconvolto, così come viene messo in discussione la logica referenzialistica che pretende di tenere insieme, in maniera univoca, l’immagine e l’oggetto rappresentato.

Si verifica, in sostanza, una sorta di passaggio delle immagini dal livello iconico a quello di figure (intense in senso specificatamente semiotico, ossia come unità elementari prive di significati, in questo caso prive dei loro significati storici) e una ricontestualizzazione di queste icone/figure in una diversa struttura di significazione.

F. Menna, 1976






Renato Barilli


Detto questo, si è appena delineato un continente enorme, perché le ragioni che spingono a usare la foto come unica via lecita di “riproduzione” sono tante e molto diverse.
C’è per esempio chi le affida il compito di “citare” nel modo più fedele le immagini altrui, di costituirsene un vasto repertorio su cui poi intervenire  “alla seconda”.
E' questo il caso di Adriano Altamira, che sembra quasi voler rubare il mestiere allo storico dell'arte fino a impostare una propria mastodontica fototeca, cercando poi di andare ad evidenziare le ricorrenze di motivi stilistici affini: dando ordine, per esempio, a una specie di proqrammatore interiore di tirar fuori tutti i casi di ricorso alla spirale,
attraverso i secoli, o alla linea auovo, o ad altre forme tipiche.
Il lavoro più succoso in tal senso è nato quando Altamira si è autoimposto di estrarre dalla propria fototeca tutte le citazioni della Gioconda: i precedenti “seri”, di Leonardo stesso e di altri artisti che hanno costituito il tipo del ritratto muliebre rinascimentale; o le profanazioni a catena,
volontarie, come i baffi imposti da Duchamp, o involontarie, come le varie cadute nel kitsch di chi riconduce la Gioconda a “souvenir”, a ciondolo, a fermacarte.
Se non ci fosse l'intervento pazientemente neutro della foto a porgere i dati, non potrebbe svolgersi questa vasta impresa di citazioni in serie, questo ilare, affascinante caleidoscopio dei vari usi e abusi della Gioconda.

R. Barilli, 1976
 







Jole De Sanna


D: Parliamo di questa tua Gioconda. Innanzi tutto la descrizione.

R: L'opera che è stata esposta a Modena è un progetto per un lavoro iconologico sulla Gioconda, che ho semplicemente intitolato con il numero delle fotografie utilizzate: 160 Gioconde.
In realtà le fotografie sono molte di più, circa 200. Questo lavoro sarebbe un progetto di catalogo a livello iconologico sulla Gioconda, che viene costruito con tutti gli altri cataloghi ritrovati, tutti i cataloghi fatti nel tempo, le citazioni trovate su certi libri, più materiale di varie provenienze.
Mischiando questo materiale si ottengono delle combinazioni assolutamente nuove. Abolisco completamente l'ordine cronologico e cerco invece di metterlo insieme secondo un tipo di categorizzazione, cioè secondo le mitologie a cui queste immagini si riferivano.

D: Più che le mitologie, nel lavoro, sono in causa le sottomitologie.

R: E', in effetti, un lavoro sulla sottomitologia. lo parto dal principio che se uno riutilizza un lavoro di un'altra persona, difficilmente lo fa per fare una copia esatta di questo lavoro n. 1: non è che una scusa per un lavoro n. 2 che ha spessissimo tutt'altri intenti.

D: Chi sono queste persone che hanno riutilizzato la Gioconda. a chi hai sottratto questi rifacimenti, da quali tipi di interventi?

R: Direi che ci sono 3 categorie fondamentali di artisti che l’hanno fatto.
Da una parte c'è la scuola di Leonardo che costituisce il nucleo meno interessante e numericamente il più esiguo, saranno una trentina di opere.
Poi ho scelto tutta una serie di quadri che devono servire più che altro come riferimenti, che non sono opere uguali alla Gioconda, ma però sono simili iconograficamente, cioè altre opere di autori contemporanei a Leonardo o pittori dell' 800 che usavano uno schema simile.
Il nucleo più interessante è però costituito da opere tratte dall’epoca moderna: gli autori sono tantissimi, artisti, fotografi ma soprattutto artisti, poi ho anche raccolto una parte di materiale (senza però eccessivo entusiasmo) riguardante l'utilizzazione di queste iconografie nella pubblicità etc. solo però quando mi sembrava che ci fosse un aggancio di tipo mitologico abbastanza preciso.

D: ideologico o mitologico in questo caso?

R: Si, sostanzialmente ideologico, però molto spesso le cose coincidono. Tornando alla sottomitologia, si è visto appunto che il nucleo più importante è costituito da queste opere fatte negli ultimi 60 anni, opere fatte tutte con intenzioni ironiche. Se sono opere di carattere ironico è segno che hanno tutte utilizzato la Gioconda come espediente per fare un discorso su un altro tema.
Questo secondo discorso sull'altro tema o il tipo di filtro che viene usato per creare un'opera ironica d’après la Gioconde sono il tema reale della ricerca.
Da parte mia c'è solo questo lavoro di catalogazione, secondo le determinate categorie ipotizzabili per questo materiale. lo però l'ho trattato non in una maniera così rigorosa come forse ci si potrebbe aspettare. In questo senso ho inserito anche molte immagini che servivano a me proprio come indice di una certa situazione ma che non avevano rapporti molto precisi con la Gioconda.
Faccio un esempio: c'è una serie di queste immagini che sono delle trasformazioni della Gioconda in vari personaggi storici più o meno importanti. Prendo l'esempio di attori, uomini di spettacolo, politici, belle donne etc.
Alcuni sono proprio i personaggi travestiti, in posa, come nel caso di Mistinguette, della Bella Otero etc. Il caso più normale è quello del fotomontaggio in cui viene sostituita alla testa della Gioconda, la testa di un personaggio.
Avevo una sequenza con Stalin e poi Marylin Monroe.
Poi ho ritrovato un fotomontaggio in cui la testa di Marylin Monroe diventava la testa di Mao-Tse-Tung. Non aveva nessun riferimento alla Gioconda però siccome c'era un meccanismo simile, ho inserito queste immagini come pure quelle di un opera di Fulvio Salvadori sul mito.
D: Per cui. che la Gioconda sia un quadro, un'opera d'arte, conta relativamente; conta molto di più il successo della Gioconda.

R: Esatto, mi sembra che in questa venisse fuori molto chiaramente. ll quadro, che io considero un “insieme di particolari”, in questa situazione si distrugge completamente, mentre rimane quello che potremmo chiamare l'emblema del quadro, cioè una specie di formula riassuntiva che agli occhi di tutti rappresenta il quadro, e tutte le operazioni catalogate secondo me vengono fatte a questo livello, cioè utilizzando l'emblema, ma non il quadro.
Questo può essere uno dei due lati del problema. L'altro che per me è abbastanza importante è quello dell'estrema difficoltà a morire dell'emblema.
L'emblema praticamente resiste ad una serie di deformazioni, di interventi veramente massacranti, con una capacità di sopravvivenza incredibile che si spiega solo nella misura in cui possiamo considerarlo un significante vero e proprio.

J. De Sanna, 1976









Francesca Alinovi

Lo stereotipo viene a identificarsi con l’archetipo. Dunque i mezzi di comunicazione di massa più che creare nuovi miti sembrerebbero ribadire, come dimostrano queste operazioni, miti e simboli già esistenti.

L'idea di una bellezza ambigua e sottilmente perversa sembrerebbe preesistere dentro di noi prima della comparsa di Marylin o della pin-up, sulla scena del consumo sessuale e dell’erotismo di massa.

E il prototipo di questa idea risale molto probabilmente assai al di là della stessa Gioconda o della Venere botticelliana, le quali hanno avuto probabilmente il merito di incarnare con maggiore


aderenza il mitologema originario di cui si è perduta definitivamente la memoria.

Ma non per questo i mezzi di informazione devono essere considerati semplici strumenti di trasmissione del messaggio, neutri e indifferenti, come vorrebbe l’lnformatica. Al contrario essi influiscono in modo decisivo sul messaggio, alterando e trasformandolo radicalmente. Intanto il semplice fatto di estrarre le immagini dal proprio contesto e di ordinarle in sequenze arbitrarie, contribuisce alla loro de-codifica e conseguente ri-codificazione. 

Ogni singola immagine assume diverso significato a seconda
della posizione che occupa nella catena sintagmatica, inoltre il significato dell’insieme
non può che essere diverso dalla somma dei singoli significati.

Per fare un esempio: le tre immagini dell'uomo senza testa pubblicata da Altamira su diverse riviste e cataloghi, finiscono per perdere le loro connotazioni originarie per assumere una connotazione nuova: non sono più tre immagini distinte e separate ma un'unica nuova immagine originale (come dimostra l'ultimo intervento dell'artista su quella vecchia opera, che abolisce gli spazi bianchi divisori tra le immagini perché hanno perduto ormai ogni funzione).

Il mezzo di informazione connota il messaggio così che la stessa opera d'arte originale, riprodotta in fotografia, non è più la stessa, diventa necessariamente “altra”.

Non a caso le varie riproduzioni fotografiche della Gioconda, tratte da diversi testi e manuali, rappresentano altrettanti “tipi” diversi dal comune prototipo originale. Inoltre, come si sa, rarissimi sono i riferimenti all'oggetto vero e proprio. E' piuttosto dall'immagine di esso che si ricavano successivamente altre immagini.

F. Alinovi, 1977





Roberto Ago


Roberto Ago: Caro Adriano, in un Paese sovente distratto, smemorato e poco riconoscente con i suoi artisti meno facili e allineati, sei pur stato un riferimento costante per tutti quegli intenditori che stanno attenti, non dimenticano e ti sono grati per quanto realizzato nel corso di un’attività pluridecennale, che altrove avrebbe conosciuto ben altre occasioni di visibilità. La tua ultima personale in corso da Marconi a Milano (Conceptual Rigoletta), dove non esponevi da qualche anno, è stata per me motivo di fibrillazione. Ci lega una comune passione per il collezionismo di iconografie e la loro “messa in opera”, oltre che l’alternarsi di un momento creativo con uno più teorico e critico. È per me un dovere, prima che un piacere, poter scambiare quattro chiacchiere con te.
Vorrei prendere le mosse da una prima evidenza: rispetto all’utilizzo della fotografia, da sempre prevalente nella tua ricerca (penso soprattutto ad Area di coincidenza), hai optato per una serie di fotografie e grafiche ri-disegnate. Vuoi chiarire i motivi di questa nuova reenactment artigianale?

Adriano Altamira: A me è sempre piaciuto disegnare, e quando ho potuto ho sempre disegnato – per esempio nel mio lavoro sui sogni (Ice dreams).
È vero che il mio impegno nel campo della fotografia ha spesso messo in secondo piano questa mia capacità. Nel caso di Conceptual Rigoletta il lavoro è nato veramente in uno stato quasi ipnotico. Mi sono reso conto poi di aver tentato, anni fa, di fare un’opera simile attraverso foto trovate qua e là. In quel caso la frizione tra i vari linguaggi fotografici “prelevati” aveva un effetto sgradevole che rendeva il risultato incerto e dilettantesco. Ridisegnando il tutto ottenevo invece quel grado di fusione tra le varie foto prese a modello (alcune mie) e anche una certa perentorietà dell’immagine. Così ci ho lavorato a fondo ottenendo (mi hanno detto) risultati a volte virtuosistici – spero che sia vero.

R. A.: Hai accennato a uno stato ipnotico, tipicamente innescato da una gestualità ripetitiva. Immagino sia stato tutt’uno con l’associazione di immagini e idee di sapore onirico che compongono questa tua ultima fatica, curiosamente scandita da una moltitudine di tavolini per due, sorta di paradossale “ristorante privato”. Si tratta forse di reiterate cenette intime con te stesso, alle quali assiste uno spettatore nei panni del cameriere voyeur? Cosa è dato sbirciare?

A. A.: La triangolazione che tu ipotizzi (i due “io” che si fronteggiano, e l’io voyeur che li guarda) è forse eccessiva, ma è un fatto che al tempo del lavoro sui sogni – soprattutto fra l’82 e l’84 – avevo scritto che quello che si stupisce non è l’uomo che sogna, ma l’uomo sveglio che si guarda sognare. Anche in Conceptual Rigoletta sono venute prima le immagini (create o trovate) e solo in seguito la riflessione che ha portato alla loro realizzazione. Forse sarebbe più corretto dire che io vedo – o intravedo ­– ma non sbircio.
R. A.: Intendevo che a sbirciare è lo spettatore, non tu che pure sei il primo spettatore di te stesso. Interessante la tua puntualizzazione ego-riferita: se l’alterità reca con sé l’idea di intrusione, illecito è estenderla alla propria persona. Nondimeno, hai esposto un ostensorio di quella che appare come una intimità onirica. Evocando la “macchina per registrare sogni” in Fino alla fine del mondo di Wim Wenders, l’analogia richiede una distinzione: è Conceptual Rigoletta una pseudo-registrazione onirica solo apparentemente prossima a Ice dreams, e cosa fa “intra-vedere”?

A. A.: Ovviamente c’è una parentela fra Ice dreams e Conceptual Rigoletta, che è un lavoro sulle associazioni mentali. Il lavoro sui sogni era però scisso in due momenti distinti: la registrazione dei sogni (disegni e a volte descrizioni); e realizzazione in 3D – di fatto delle sculture, spesso di complessa realizzazione. Qui invece la comparsa dell’immagine e il disegno sono quasi un tutt’uno – direi che si completano a vicenda: anche se spesso, volutamente, sembrano accennare alla realtà più che rappresentarla. È una realtà che passa attraverso il ricordo, il pensiero, la sensazione anche. D’altro canto, come mostra bene la scelta degli eserghi, qui mi pongo delle domande sulla natura dell’immagine (penso a Meister Eckhart in particolare) di taglio più concettuale rispetto al lavoro sui sogni, volutamente irrazionale dopo più di dieci anni di Area di coincidenza, il mio lavoro decisamente più teorico.

R. A.: Si può notare in effetti come il tuo compendio di icone disegnate sembri ricalcare non solo la freudiana associazione di idee, ma addirittura la retorica onirica, senza mai scivolare nel surreale. Rispetto al rigore analitico di Area di coincidenza e alla successiva compensazione intimistica di Ice dream, la tua ricerca attuale sembra concentrarsi sui meccanismi dell’analogia, dello spostamento e della condensazione, secondo un modus a cavallo tra Freud e Warburg. Cosa puoi dirmi in merito alla sovrapposizione di psicoanalisi e iconologia che Conceptual Rigoletta sa evocare?

A. A.: Ho notato che tutti quelli che seguono il mio lavoro hanno riscontrato una somiglianza fra Conceptual Rigoletta e Area di coincidenza, mentre quasi nessuno (a parte te) ha visto una relazione col lavoro sui sogni. Sarà forse per questa mia tendenza ad accostare immagini apparentemente disparate attendendo, un po’ maieuticamente, che facciano il loro effetto nella mente di chi guarda, più che suggerirglielo io stesso. Se Area di coincidenza era un lavoro decisamente warburghiano (nota che quando l’ho iniziato avevo forse 22 anni e di Warburg sapevo poco o niente) qui in effetti le icone giocano più liberamente fra loro, in senso non so se freudiano, ma certamente psicoanalitico: un aspetto che nel lavoro sui sogni era invece poco – se non per niente – sottolineato. Tuttavia è anche vero che in sequenze come quella di Mrs Martins, in cui il vero personaggio è Duchamp, si cerca anche di fare un discorso sull’arte, sulla irrealizzabilità del desiderio, sull’assenza.

R. A.: Credo sia l’associazione solo apparentemente libera di icone relative alla contemporaneità a restituire un sapore prossimo alla retorica onirica: esse vedono all’opera meccanismi semiotici e immaginari sovrapponibili. Indispensabili alla piena intelligibilità di Conceptual Rigoletta, sono i dodici testi in catalogo, che con altrettanta ispirazione hai composto. Da uno di essi, Pussy Galore (mitica), ho estrapolato il lemma “la contemporaneità indistricabile dei vari livelli di racconto”. Mi sembra che questa dissimulata sentenza apofantica (“la contemporaneità è un intrico di differenti livelli di lettura”) possa sintetizzare il senso generale di Conceptual Rigoletta, questo vortex narratologico il cui vertex ideale è rappresentato dal bendato generale Druot, un Altamira-Tiresia che va rovesciando il mondo in interiorità e viceversa. Vorrei tentare un’ermeneutica del tuo (o suo?) detour, naturalmente parziale e prospettica. Siccome il senso dei vari episodi lo hai già illustrato tu nel catalogo, mi indirizzerò al reperimento degli ingredienti trasversali a tutte le portate. “Io” narrante a parte, essi sono: personaggi storici e culturali “rettificati” in tuoi alter ego (emblematicamente introdotti da Duchamp); ombre, vuoti e veti; piedi e scarpe femminili; animali, domestici e non; sguardi di donne-animali e di voyeur dotati di raggi X; donne del (e di) mondo; marchingegni tecnologici in quantità; libri, film e media in genere; architetture, opere d’arte e iconografie. Ti risuona un tale elenco in bilico tra il palinsesto onirico e quello della modernità?

A. A.: Ti rispondo, in disordine, partendo dal mare di suggestioni e di domande che mi invii.

R. A.: Ne hai facoltà: tale l’opera, così l’esegesi.

A. A.: Giusto è quanto dici sui personaggi storici “rettificati”: in particolare il generale Druot, effettivamente un alter ego. Non ti sarà sfuggito il fatto che con l’aria di niente ricordo la circostanza di una sorta di performance fatta in Svezia, durante la quale, bendato, ritto su una scogliera a picco sul mare disegnavo a memoria, e al buio, il paesaggio circostante.
Altri due personaggi, Duchamp all’inizio, Isidore Ducasse (Lautréamont) alla fine, portano con loro una sorta di indicazione di tendenza – nonostante il fatto che tu sottolinei opportunamente, che io cerchi sempre di tenermi a distanza dal Surrealismo in senso stretto. Infatti mi è sempre interessato di più il Dadaismo, nella chiave Duchamp/Picabia, piuttosto che Tristan Tzara, nonostante si debba a quest’ultimo la scoperta, o il lancio, di Ducasse.

R. A.: Anche l’universo femminile è ben presente, nel tuo lavoro…

A. A.: Vorrei sfatare la leggenda di un Altamira feticista del piede, anche se non sarebbe così grave. Teoricamente dovrebbero bastare le due citazioni dai manoscritti del Mar Morto e dagli appunti di Margherite Yourcenar per fare chiarezza, ma al pubblico piace rimestare nel torbido, e delle volte anche a me. In realtà io adopero il piede in funzione anti-psicologica. In effetti un tempo i maestri, come per esempio Rubens o Reynolds,
nei ritratti, dipingevano volto e mani (le parti “espressive”), lasciando poi al maestro di panneggi i vestiti e al maestro di paesaggi gli sfondi. Mi diverte dedicare al piede, parte non nobile del corpo, quell’attenzione che solitamente si riserva al volto. Oggi poi che tutto diventa “segno”, in senso filosofico, le scarpine con gli aculei di metallo, piuttosto che un elegante motivo pied-de-poule, hanno una funzione “espressiva” tutt’altro che trascurabile.

R. A.: Dimentichi i piedi di ninfa di warburghiana memoria, dunque così feticista non sei.

A. A.: Quanto agli animali, di cui sono da tempi non sospetti un grande estimatore, vorrei notare come essi, ancor oggi, costituiscono un ponte di collegamento preferenziale col mondo mitologico, che si collega naturalmente al mondo di icone che vado creando.
Venendo ai personaggi femminili, sì, forse costituiscono una sorta di galleria di amori sognati più che vissuti. Così come alcune architetture – penso a San Lorenzo e all’arco alla fine della piazza – rappresentano gli spazi in cui mi muovo abitualmente.
La citazione di opere d’arte come il Filippino Lippi e il Piero Di Cosimo è per me abituale, anche se qui vengono metaforizzate in senso personale.
Per quanto riguarda i macchinari, infine, in genere funzionano un po’ come dei readymades, a metà strada fra oggetti a funzionamento simbolico e metafore congelate, i fotogrammi dei film hanno un ruolo ben più attivo. Il film di Pabst ad esempio, muto ma privo di didascalie, è un precedente illustre di Conceptual Rigoletta, anch’esso privo di didascalie esplicative. Mi piace pensare che le storie raccontate alla fine del libro (non è un semplice catalogo) – che in effetti era il vero scopo della mostra, il suo suggello – siano le “mie” storie, che chiunque altro potrebbe raccontare in altro modo.

R. A.: Purtroppo il web non ci consente di proseguire oltre. Nel salutarti invitando il pubblico a non perdere assolutamente la tua mostra da Marconi, alla quale dedicare un po’ più di tempo del solito, magari sfogliando le agili chiavi d’accesso del “libro”, vorrei lasciarti con un’ulteriore suggestione: godi anche tu nel pensare ai cartigli dei dipinti che evolvono come le specie naturali, tanto da scoprirsi bolle dei fumetti?

A. A.: Anche i cartigli lasciati in bianco prima da Filippino Lippi, poi da me, potrebbero originare vari “fumetti”. Il fatto di non precisare sempre “cosa” o perché, è lo spazio di libertà lasciato all’arte. Se uno dovesse dire al suo lettore “cosa” immaginare, l’arte avrebbe finito di essere uno spazio libero. Soprattutto in questa civiltà che si picca di prevedere i nostri desideri, di indirizzare il nostro gusto, di pianificare il nostro futuro.

Roberto Ago


“Lezioni di critica #2. Adriano Altamira e il detour del generale Druot”
Artribune.com
4 Marzo 2018

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